Il Novembre 2012

05.11.2012
Michele De Michelis
Michele De Michelis
PRESIDENTE CDA E CHIEF INVESTMENT OFFICER

A marzo di quest’anno, in occasione del “Punto Mensile” del post LTRO, concludevo il mio intervento con le seguenti parole: “In questo contesto un occhio vigile va rivolto all’inflazione: è lì pronta piano piano ad alzare la testa, stimolata da più parti. Per innescarla manca solo la velocità di circolazione della moneta”.  

Negli ultimi giorni del mese, ho partecipato ad un evento organizzato dalla Citywire e sono rimasto sconcertato da alcune statistiche che la Dott.ssa Pippa Malgrem (advisor professionista per la Casa Bianca e grandi società di asset management) ha pronunciato durante il suo discorso: 1) Se tutti gli Americani lavorassero tassati al 100%, quindi non guadagnassero un Euro, gli Stati Uniti sarebbero comunque in deficit. 2) Se gli Stati Uniti non spendessero più un dollaro per spesa militare, scuola e infrastrutture primarie come ponti e strade … sarebbero comunque in deficit. Semplicemente pagando gli interessi sul loro debito e l’assistenza sanitaria.  

Capite quindi che le possibilità sono due … o il default o l’inflazione.

A questo punto, la Storia economica ci può venire in aiuto, dicendoci che gli Stati Uniti preferiscono la seconda ipotesi. L’hanno fatto per la guerra d’indipendenza, per la guerra di secessione, per la prima e seconda guerra mondiale ed infine per il Vietnam. La creano e poi l’ammazzano, come fece Volcker negli anni 80. Tanto, come ha aggiunto sorridendo la Malgrem, “c’è sempre qualcuno che compra i nostri bonds”. E’ altresì  vero però che l’enorme flessibilità del loro sistema, consente loro di rinnovarsi in continuazione per superare l’impasse economica che si crea dopo le grandi crisi. Basti pensare che enormi gruppi industriali come la General Electric o aziende manifatturiere (abbigliamento) come la Brooks Brothers, stanno riportando la produzione negli Stati Uniti, perché conviene, così come è più conveniente produrre l’acciaio in casa per la US Steel. Anche Warren Buffet sostiene che sia molto interessante investire oggi in aziende manifatturiere, (non indebitate) perché potranno scaricare sui prezzi l’aumento derivante dai costi dell’inflazione.

Altro segnale chiaro ed evidente in tale senso, è il duplice mandato della FED che in questo momento è totalmente concentrata sul tasso di disoccupazione piuttosto che sull’aumento dei prezzi, che sta cercando di creare per poter “distruggere” il valore reale del grande debito. Negli anni 70 era pensiero comune affermare che lo shock petrolifero fosse responsabile degli alti tassi di inflazione mondiale … Allora perché Stati come il Giappone e la Germania, dal 75 all’83 hanno avuto tassi medi rispettivamente del 6 e 4,5% nonostante il loro fabbisogno petrolifero dipendesse al 100% dall’importazione, quando USA, Australia e Canada nello stesso periodo hanno avuto tassi tra il 13 e il 10%  anche se la loro dipendenza petrolifera dall’estero fosse nettamente inferiore (USA 50%, Australia 20%, Canada addirittura 0%)? La risposta la dà il famoso economista Milton Friedman … “L’inflazione è sempre ed ovunque un fenomeno monetario”.

Morale …

Secondo alcuni grandi gestori (non grandi per le masse in gestione, ma grandi per i risultati ottenuti nel tempo), il posto peggiore dove mettere il denaro è il conto corrente, mentre avere in portafoglio “hard assets” o asset reali, potrebbe essere molto più redditizio e per assurdo meno rischioso. A livello obbligazionario, solo scadenze corte oppure “inflation linked notes” che, anche se i governi manipoleranno i tassi reali della CPI, forniranno sicuramente maggiore protezione dalla stessa. Io non so se questa visione si rivelerà corretta (anche se sono abbastanza fiducioso), ma mi fa piacere notare che nei miei portafogli questa impostazione è già stata implementata. 

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