Il Marzo 2014

03.03.2014
Michele De Michelis
Michele De Michelis
PRESIDENTE CDA E CHIEF INVESTMENT OFFICER

Scrivere di economia e mercati in momenti come questi, quando il rischio di crisi geopolitica potrebbe deflagrare, è sempre molto difficile. Ci auguriamo tutti che il buonsenso abbia la meglio, ma sappiamo anche che gli interessi economici spesso prevaricano tutto il resto. Nella speranza che la diplomazia riesca comunque a bloccare questa escalation, proviamo a concentrarci sugli avvenimenti economici che hanno caratterizzato lo scorso mese per capire cosa potremmo aspettarci in marzo.

La correzione di mercato cominciata a metà gennaio alla fine si è risolta molto velocemente negli Stati Uniti, portando l’indice S&P500 a rompere per l'ennesima volta il suo record storico, nonostante la pubblicazione di dati macroeconomici discordanti. Benché sia stato scritto che è stata data una lettura positiva di questi dati (l'eccezionale maltempo pare abbia impattato in maniera significativa sull’andamento del mese di gennaio, senza tuttavia alterare il trend positivo in corso), personalmente non sono particolarmente convinto di questa spiegazione, piuttosto credo che la speranza (o forse l'ottimismo) degli operatori rimanga orientato all’operato futuro della Yellen, ovvero che non abbassi la guardia in merito alla politica monetaria di stimolo della FED. Ricordiamo infatti che la banca centrale americana, pur proseguendo nella sua azione di tapering, acquisterà comunque un ammontare pari al deficit annuale americano solo nel primo semestre 2014. Contestualmente il mercato si aspetta azioni ancor più incisive da parte di Kuroda e vi sono attese per cui la BCE dovrebbe allentare ulteriormente la sua politica monetaria, tagliando i tassi e/o fornendo ulteriore liquidità al sistema bancario dell'Eurozona. Draghi durante il suo ultimo discorso ha chiaramente fatto capire di essere pronto ad azioni non convenzionali qualora il rischio di deflazione si dovesse ulteriormente concretizzare.

Per alcuni aspetti questo contesto ricorda quello del Giappone del 1994-1997, quando il paese del Sol Levante registrò una bassa inflazione prima che la crisi del Sud-est asiatico lo spingesse in una deflazione ventennale.

Quindi, se decidiamo di avere fiducia nei banchieri centrali , non possiamo non pensare che questo sforzo congiunto - in ultima istanza - non abbia come conseguenza un ritorno massiccio dell'inflazione. Pur tuttavia, mi rendo conto che preoccuparsi della siccità estiva quando stiamo vivendo un inverno straordinariamente piovoso non faccia parte della natura umana, ma piuttosto sia più vicino al modo di pensare della formica del racconto di La Fontaine.

Il mio consiglio rimane di sfruttare questa pioggia eccezionale (bassissima inflazione) per stipare grandi serbatoi d'acqua utili a fronteggiare una siccità estiva che inevitabilmente arriverà. L'inflazione – una volta riaccesa - brucerà (come la calura estiva) sia il valore reale dei debiti a tasso fisso (tramutandosi perciò in una vera e propria manna per l'indebitamento degli Stati) che il valore delle azioni di quelle aziende che avranno perso il pricing power ovvero la capacità di adeguare i prezzi all'aumentare del costo della vita.

In Giappone, per esempio, l’obiettivo dichiarato è quello di portare l'inflazione al 2% e non credo che si fermino proprio ora che si trovano a metà strada perché l’intera operazione altrimenti non avrebbe alcun senso.

Con i suoi stop&go, lo yen sembra puntare verso quota 115-120 contro dollaro e, anche se nel breve la bilancia commerciale non pare confermare gli sforzi di Abe, prima o poi l' economia giapponese – sulla base del vantaggio competitivo di una valuta debole - tornerà ad esportare più di quanto non importi in questo momento, fornendo pertanto grande impulso alle sue aziende. Tra le altre cose, la pubblicazione dei risultati finali relativi al 2013 ha confermato che i prezzi in Borsa delle azioni nipponiche sono saliti proprio grazie alla crescita reale degli utili, che dovrebbe anche essere la motivazione principale cui guardare quando si comprano i titoli di una società quotata. Quindi nessuna bolla o rerating, ma soldi veri.

Sono tutte considerazioni che mi portano a mantenere la mia asset allocation, avendo tuttavia l’accortezza di puntare uno specchietto retrovisore in direzione dei diversi scenari che potrebbero aprirsi in base all’avverarsi o meno di determinati shock geopolitici. A livello settoriale, dopo aver cavalcato con estremo piacere il biotech (attuando la regola del protocollo operativo, si è preso parzialmente profitto riducendo la posizione), noto un risveglio estremamente interessante in uno dei settori che consigliavo ad inizio anno, ovvero l'oro, ma soprattutto i gold miners.

Quest'ultima asset class, dopo essere stata abbondantemente trascurata negli ultimi anni, con uno sconto record rispetto all'oro fisico mai registrato, ha visto registrare ottime performance negli ultimi 2-3 mesi, segno che forse ci troviamo di fronte ad una inversione di tendenza. Il mio consiglio – pertanto - è di tenerne una piccola percentuale (tra il 3 e il 5% a seconda del grado di rischio) utilizzando sempre la stessa regola (che tra l'altro viene messa in pratica anche da alcuni degli investitori istituzionali più grandi al mondo come il fondo sovrano norvegese) di ricomprare sulle debolezze e ridurre sui rally.

Per quanto riguarda l’esposizione valutaria, ritengo che il dollaro Usa sia da mantenere (intorno al 10-15% in portafoglio) in quanto – assodato lo spread in termini di crescita tra Usa ed Europa e considerato il fatto che casomai qualche banchiere all'interno del FOMC stia già sussurrando di rialzare i tassi mentre la BCE si trova ancora all' inizio del suo eventuale processo di Quantitative Easing e stimolo dell’economia – non comprendo su quali prospettive l’euro possa ancora mantenersi su questi livelli.

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